Il presidente della FIGC Gabriele Gravina, è tornato a parlare del Mondiale, dell’addio di Luciano Spalletti alla Nazionale e non solo: le sue parole.
In una lunghissima intervista rilasciata a Ivan Zazzaroni ai microfoni de Il Corriere dello Sport, il presidente della FIGC Gabriele Gravina, ha toccato diversi temi improntati. Dall’obiettivo Mondiale con i playoff in vista a marzo contro l’Irlanda del Nord passando per l’esonero a giugno scorso di Luciano Spalletti.
Italia, le parole del Presidente della FIGC Gravina
Il rischio di non qualificarsi a un altro Mondiale c’è. «A chi mi dice “vai a lavorare” rispondo: se vado via io, riparte il calcio e vinciamo i Mondiali? Se ne avessi la certezza, sarei il primo a farmi da parte. Per questo sono un uomo sereno A marzo non manca molto e dopo l’inverno c’è sempre la primavera».
Dunque si aggrappa all’ottimismo? «Sì, e lo faccio su basi concrete, reali, su elementi oggettivi come il percorso che ci ha portato fin qui al netto del secondo tempo con la Norvegia. Il pessimismo ci fa sprecare energie, disperderle non aiuta la causa. L’obiettivo è alla portata. Rimbocchiamoci le maniche, impegniamoci tutti insieme. E dico tutti».
Si riferisce ai suoi avversari? «È innegabile che qualcuno viva la Nazionale come un fastidio».
Dal 2002, a parte i trionfi del 2006 e del 2021, rimediamo figuracce. «Posso fare io una domanda? Le cause voi le avete individuate?»
Le elenchiamo da decenni. Alcune sembrano evidenti: i giovani non giocano, gli stranieri in campo sono sempre di più, gli investimenti nei vivai e nelle infrastrutture sono un miraggio e le proprietà estere hanno colonizzato il nostro calcio mettendo un impegno emotivo e politico limitato. «I soldi li mettono, però. Sono tra i pochi che trasformano le risorse in capitale, dando ossigeno al sistema. Per me le cause sono anche altre».
Quali? «La metodologia sbagliata. Ogni volta che la Nazionale commette un passo falso, immediatamente c’è l’indignazione popolare e si chiedono le teste. Ci sto, è il gioco dei tifosi. Ma noi continuiamo a cercare colpevoli senza renderci conto che la Figc non può imporre certe cose, ma soltanto sensibilizzare».
Ci si chiede come si possa avere una Nazionale competitiva senza italiani in campo. «Ne abbiamo 97 selezionabili, il 25% del totale. Novantasette su 20 club di A, vi rendete conto?».
Tornare al passato, con un numero ridotto e definito di stranieri per rosa, è utopistico? «È impossibile. La Figc può solamente intervenire sugli extracomunitari, come ha gia fatto, rispettando le quote assegnate dalla legge Bossi-Fini. E impossibile limitare il numero di stranieri comunitari, è contro le norme Ue che dalla sentenza Bosman in poi prevedono la libera circolazione dei calciatori. Puntare sugli italiani non può essere un obbligo, semmai deve diventare una vocazione naturale. Che si abbina agli investimenti sui settori giovanili e sulle infrastrutture».
La ricerca dei colpevoli resta lo sport più praticato in Italia. «Ma è sbagliato. Ci sono delle leggi che non consentono imposizioni. Il calcio come industria, ahimè, rientra nell’economia di mercato. E negli ultimi trent’anni è cambiato, bisogna rendersene conto. Prima era tecnica e noi eravamo maestri. Oggi è tecnica, velocità, fisicità. Guardate la Norvegia».
La Norvegia però ha attuato un programma serio sui giovani. «Anche noi ci stiamo lavorando».
Non è un po’ tardi? «La nostra progettualità va avanti dal 2018, nel frattempo siamo diventati campioni d’Europa con l’Under 17 e con l’Under 19 e vicecampioni del mondo Under 20. Stiamo poi avviando un progetto per l’attività di base dai 5 ai 13 anni con due campioni del mondo, Perrotta e Zambrotta, insieme a un maestro come Prandelli. Vogliamo cancellare l’idea di un metodo incentrato solo sulla tattica».
La famosa tecnica di base, oggi perduta. «Meno tattica e più tecnica, questo l’obiettivo. Dobbiamo liberare l’estro. I bambini si annoiano, vogliono giocare, gli allenatori tendono a ingabbiarli negli schemi già in tenera età».
C’è chi chiede la separazione delle carriere degli allenatori. «È la strada. Bisogna creare dei formatori».
Anche gli allenatori si giocano il posto, però. Se non portano risultati, vanno a casa. «Chi punta al risultato non può lavorare nell’attività di base. Diverso sarebbe affidando i ragazzi a degli specialisti della formazione».
Ma le società di Serie A sono antagoniste della Nazionale? «Oggettivamente lo sono, anche se involontariamente. Ogni club guarda al proprio tornaconto».
Lei ha detto “non esiste una norma che mi obblighi a fare un passo indietro”. Ma se andasse male nel playoff, ci penserebbe? «Vero, l’ho detto. Tutto il resto rientrerebbe in una valutazione personale. A chi dice che i miei predecessori si sono fatti da parte dopo una débacle ricordo che Abete si dimise per motivi personali, mentre Tavecchio fu sfiduciato e tradito. Alla base della nostra struttura c’è un principio di democrazia. Se pensiamo che quando c’è un risultato negativo bisogna cambiare il presidente, commettiamo un altro errore. lo in campo non vado, ma le mie scelte le difendo. Se vado via io che succede? L’ltalia vince il Mondiale e spariscono i problemi? Nel 1994 volevano linciare i calciatori dopo una finale persa, lo ricordate? E ancora: la responsabilità sarebbe legata al risultato o alle riforme?».
Si è mai pentito di qualcosa in questi sette anni a Via Allegri? «Una su tutte: ho convocato un’assemblea per la riforma e ho sbagliato a fare marcia indietro».
Perché lo ha fatto? «Temevo che il confronto sarebbe stato aspro e duro, forse avrei pagato un prezzo personale troppo alto. Ho preferito il dialogo, ma il tempo ora non ce l’ho più. Quello però era il momento di spingere, come poi ho fatto per la modifica dello statuto».
La riforma dei campionati è in agenda? «Prima di marzo dobbiamo aprire il tavolo».
In tutte le leghe ci sono i “graviniani”, tranne in A. Le ultime elezioni le ha vinte con oltre il 98% dei consensi. «La riforma dovrà essere radicale. In Italia abbiamo 100 società professionistiche rispetto alle 92 dell’inghilterra, che ha due Tivelli di professionismo. Nella nostra Serie B il 35% del turnover surriscalda il sistema e lo indebita. Il concetto di mutualità tra le leghe ha una percentuale altissima in termini di divario. Non può ridursi tutto a “Serie A a 18 sì o no”. Serve il consenso di tutte le leghe».
Gattuso chi l’ha scelto lei o Buffon? «Nel Club Italia il dialogo è costante. A marzo 2025 avevamo già contattato Rino per coinvolgerlo: gli avrei affidato l’Under 21. Avremmo voluto a bordo anche Baldini. Così quando c’è stata l’occasione li abbiamo chiamati entrambi».
È vero che Roberto Mancini si era proposto per tornare? «È vero. Ci ho parlato. Aveva dato la sua ampia disponibilità».
Spalletti andava esonerato prima di Norvegia-Italia? «lo non l’avrei mandato via neanche dopo».
La accusarono di non essersi presentato alla conferenza in cui il ct annunciò la fine del rapporto. «Non è vero. Ero lì. Ma essendo la conferenza Uefa della vigilia, non potevo intervenire».
C’era un accordo? «Sì, che alla fine di quella conferenza io e Luciano, insieme, avremmo annunciato la risoluzione».
Quindi lui l’ha anticipata? «Sì, è crollato alla prima domanda. Non ha trattenuto la sua esplosione di rabbia. Ma è stata una reazione da italiano vero».
Ha perdonato tutti. «Ma io non devo perdonare nessuno. Però neppure dimentico».
Parliamo di debiti. Perché i proprietari più esposti non vengono fermati prima che acquistino i club? La mancanza di solidità diventa debito, che porta a penalizzazioni, che falsano i campionati. «Esistono norme federali e norme del codice civile. Sfido chiunque, davanti a un notaio, a impedire il passaggio di quote. L’unica arma che noi abbiamo è il benestare della commissione sui principi etici e sulla solidità economico-finanziaria di alcuni soggetti».
Presidente, mentre lei tenta di stringere le maglie le società continuano a vivere al di sopra delle loro possibilità. «La chiave è la sostenibilità, purtroppo confusa con il concetto di crescita senza limiti. Valore della produzione e costo del lavoro devono andare d’accordo. Non vuol dire che non puoi spendere, ma che si può fare mettendo delle risorse. In Bundesliga da 18 anni il 90% delle società chiude in utile».
Togliamoci il dente: chi è il responsabile del blocco del mercato della Lazio? «È mancato il rapporto tra questo valore della produzione e il costo del lavoro. Quindi pochi ricavi e costi troppo alti. Il risultato ha dato tre parametri non rispettati. Così si è arrivati al blocco totale».
Bastava davvero che Lotito mettesse tre milioni? «Ma dai, siamo seri. Se andiamo dietro alla demagogia non ne usciamo. Gli indicatori sono oggettivi e sono stati approvati a marzo del 2024. Tutti conoscevano le regole del gioco e anche Lotito le ha votate».
Ora l’indice di liquidità non conta più come prima. «Guardate, io sono sempre stato per l’indice di liquidità ammissivo: se non rispetti il rapporto tra attività e passività correnti, non ti iscrivi al campionato. Era a 0,5, noi lo abbiamo portato a 0,6 quando nell’economia di mercato già 1 è un fattore di rischio. La Lega ci portò in tribunale. Oggi è evidente che il mondo del calcio viva momenti di fibrillazione finanziaria. E va dato merito a chi ricorre alle proprie finanze».
È stata la Serie A a chiedere il costo del lavoro allargato come parametro? «Sì, perché è un indice Uefa».
Oggi però questo indicatore preoccupa i club. «Pensate, noi l’abbiamo appena portato al 70% e non è stato facile. Partivamo da 90, poi 80. Più è basso più ci avviciniamo alla sostenibilità. In Germania da anni è al 50%».
Nel frattempo, gli arbitri sono sempre nel caos: inchieste, polemiche, errori. Renderli indipendenti è la soluzione? «lo sono favorevolissimo all’autonomia. Sono già usciti dal consiglio federale e mi auguro che dal 1 luglio 2026 ci sia una nuova società autonoma con dei soggetti azionisti».
Il presidente dell’AIA, Zappi, è finito nella lente della procura federale. Si va verso un commissariamento? «Non corriamo troppo. Zappi per ora ha ricevuto soltanto una conclusione delle indagini».
Presidente, anche lei ha votato per Infantino? «Non c’era nessun altro».
Ormai si lamentano tutti: si gioca troppo. Ci rimettono lo spettacolo e la salute dei calciatori. Non si potrebbe frenare questo desiderio espansionistico, economico ed elettorale del presidente della Fifa? «Infantino in questo momento vive in una dimensione mondiale. Sta valorizzando aspetti che il calcio non aveva mai conosciuto prima. Siede ai tavoli per la pace e ha rapporti consolidati con la politica internazionale. L’altra faccia della medaglia è questo motore che viaggia ad altissimi giri sempre. Così rischiamo di fonderlo. Dobbiamo cominciare a ragionare in maniera organica, di sistema, rispettare principi di globalizzazione ma anche le vere regole gioiose del calcio. Non dobbiamo ingolfare così i nostri calendari».
Molti ritengono sia colpa soprattutto delle nazionali. «Come si fa anche solo a pensare di toglierle? La Nazionale è identità territoriale, fenomeno di aggregazione, ci rende orgogliosi del nostro Paese e ci unisce nella solidarietà quando va male. Sono sentimenti che fanno bene a un popolo».
La sensazione è che Uefa e Fifa abbiano in mente soprattutto il profitto. «Se fosse questa la direzione, sarebbe una direzione sbagliata».
I rapporti con il ministro Abodi sono buoni? La commissione governativa sui conti dei club lei l’ha contestata. «Sì lo sono, anche se a volte non siamo d’accordo. Diciamo che abbiamo una buona capacità di essere schietti reciprocamente».




