Le discriminazioni religiose nel mondo del calcio: Champions League e il caso Ronaldo

Dall’estratto di una personale tesina in Diritto ecclesiastico, della facoltà di Giurisprudenza di Bologna, ho deciso di portare alla sensibilizzazione dei lettori l’argomento delle discriminazioni religiose nel mondo del calcio. L’intero studio prende ispirazione dalla normativa sull’abbigliamento religiosamente orientato, per poi sviluppare una critica verso il modello della nostra amata Champions League.

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Discriminazioni e abbigliamento religiosamente orientato

Alcune confessioni religiose impongono ai propri fedeli di indossare dell’abbigliamento tipico religioso in ossequio ad uno specifico dogma confessionale. L’abbigliamento individuale è riconducibile alla libertà di manifestazione del proprio credo religioso, tutelato dagli artt. 2 e 21 cost., nel contesto italiano, e dallart. 9 CEDU comma 1 in ambito sovranazionale.

Da regolamento i calciatori, professionisti o dilettanti, devono rispettare delle ferree regole di abbigliamento. Il fine è quello di tutelare la salute e la sicurezza dei calciatori all’interno del rettangolo verde. Storicamente il calcio, e più in generale lo sport, è sempre stato lontano e indifferente verso l’abbigliamento religioso e l’importanza che ha per i propri devoti.

Dal Taekwondo al casus belli nel mondo del calcio

Nel 2008 la Federazione mondiale di Taekwondo aveva autorizzato le atlete islamiche all’utilizzo del velo nelle gare ufficiali, mentre il mondo del calcio è rimasto ancora a guardare. Il casus belli che ha dato il via alle discussioni sull’abbigliamento religiosamente orientato fu quello inerente alla squadra femminile dell’Iran alle olimpiadi del 2012, ove le calciatrici si sono rifiutate di scendere in campo spoglie del proprio velo, nonostante l’invito dell’arbitro e del delegato FIFA, vedendosi commisurare una sconfitta a tavolino.

Il caso italiano e l’intervento FIFA

In Italia la prima e vera problematica inerente all’abbigliamento religiosamente orientato avviene nel 2013, quando un arbitro, dirigendo la gara dilettantistica Montirone – Sant’Eufemia del bresciano, ha impedito l’ingresso in campo di un calciatore sikh. Quest’ultimo indossava il classico turbante rappresentativo della propria religione e il direttore di gara ha invitato il ragazzo più volte a rimuoverlo, pena impossibilità di disputare l’incontro. Sul caso si è abbattuta una forte gogna mediatica, alimentata dal fatto che lo stesso calciatore ha disputato diverse gare indossando tranquillamente il turbante.

Nel marzo 2014 il segretario generale della FIFA, Jerome Valcke, ha annunciato il via libera agli “head covers” come il turbante sikh e il velo islamico. La direttiva sarebbe stata applicata per un periodo di prova di venti giorni, per poi entrare a tutti gli effetti nei regolamenti FIFA. Nello stesso anno, l’AIA (Associazione Italiana Arbitri) ha autorizzato un arbitro donna della sezione di Cremona ad indossare il velo nell’espletamento della propria attività sportiva.

Discriminazioni religiose e Champions League

Verosimilmente, la competizione riserva le più grandi emozioni e gli scontri più pesanti tra i quarti di finale e le semifinali, coincidendo spesso con il Ramadan islamico. I fedeli musulmani, per circa 30 giorni, applicano in maniera ferrea i cinque pilastri dell’Islam, tra cui il digiuno (Sawn) fino al calar del sole. I calciatori non sono esenti da tale dogma. Di conseguenza, dovranno allenarsi e giocare gli incontri di campionato e Champions League in completo digiuno, subendo una vera e propria discriminazione o, comunque, differenziazione rispetto ai propri compagni e colleghi di altre confessioni religiose.

Grazie alla globalizzazione e alla “normalizzazione” delle società multiculturali, anche i migliori calciatori – un tempo europei o sudamericani di credo cristiano – professano liberamente la religione musulmana. Gli esempi più lampanti sono Mohammed Salah, Riyad Mahrez oppure l’ex capitano del Man City del triplete, İlkay Gündoğan.

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Il dibattito

La concomitanza tra le sfide finali della stagione calcistica e il Ramadan è un argomento molto dibattuto. Alcuni calciatori decidono spontaneamente di non rispettare i precetti islamici, sebbene molto devoti, per preparare al meglio le gare. Ad esempio, lo stesso Mohamed Salah ha scelto di non rispettare il digiuno in vista della finale di Champions League del 2019, sebbene l’anno precedente abbia scelto di seguire i propri dogmi, in occasione della finale del 2018 contro il Real Madrid.

Altri atleti sono riusciti ad ottenere l’autorizzazione dalle autorità dei Paesi di provenienza ad interrompere il digiuno durante l’attività fisica per poi riprenderlo successivamente. Questo è il caso celebre degli Emirati Arabi Uniti alle Olimpiadi di Londra del 2012, che ha permesso ai propri atleti di sospendere il digiuno per recuperarlo a competizione terminata.

Infine, il caso contrario più famoso è quello del cestista Hakeem Olajuwon del 1995. Il nigeriano ha giocato tutte le partite del mese di Ramadan rispettando in toto i precetti religiosi, chiudendo il mese con una media di oltre 30 punti a gara.

La normativa italiana

In questa situazione non sembra applicabile la disciplina lavoristica, ossia potersi esentare dallo svolgimento di attività che possano contrastare con i dogmi religiosi, dato che gli atleti vivono per partecipare alle migliori competizioni e per vincere trofei o medaglie. Dal punto di vista normativo, sebbene gli articoli 9 e 10 del Contratto Collettivo dei calciatori di Serie A consentano una sorta di ingerenza dei club sullo stile di vita dei propri tesserati, le società non possono impedire ai calciatori di rispettare e manifestare liberamente il proprio credo religioso.

Il digiuno dovuto al rispetto dei principi islamici non è immediatamente e necessariamente collegabile ad un calo delle prestazioni sportive: vedere per credere l’incredibile mese di Ramadan 1995 di Hakeem Olajuwon.

In concreto, qualsiasi azione delle squadre verso i propri giocatori si andrebbe a schiantare contro la tutela di norme di rango superiore, come la libertà religiosa (art 2-17-18-19-21 cost.), il divieto di discriminazione (art 3 cost.) o il principio di laicità (sent. 203/1989 della Corte costituzionale).

Discriminazioni religiose nei Paesi islamici: il caso Ronaldo

L’esultanza e il segno della croce

Nel match valido per le semifinali di Champions League asiatica, Cristiano Ronaldo riesce a sbloccare la gara con l’Al Shorta e a segnare il gol del decisivo 1-0. Come da copione, il portoghese è solito esultare facendosi il segno della croce prima di effettuare un salto seguito da un urlo liberatorio. L’ex Man United nella gioia e nell’adrenalina di aver deciso l’ennesima gara con una sua giocata, ha dimenticato che in uno Stato islamico è tassativamente vietato fare proselitismo cristiano.

Chi viola tali regole è perseguibile penalmente con l’arresto. In passato l’ex attaccante colombiano dell’Al Nassr, Juan Pablo Pino, fu arrestato in un centro commerciale a causa di un tatuaggio raffigurante Gesù Cristo visibile dalla sua maglietta smanicata. Ovviamente per Cristiano Ronaldo nulla di tutto questo è accaduto e accadrà mai.

Le accuse di adulterio in Iran

In occasione di una gara della fase a gironi della Champions League asiatica tra l’Al Nassr e Persepolis, Ronaldo ha incontrato un’artista iraniana paralizzata per l’85% del proprio corpo che disegna solamente con l’utilizzo dei piedi. Fatemeh Hamami ha realizzato un ritratto per il proprio idolo e il portoghese, per ringraziarla, le ha dato un abbraccio e un bacio. Il governo iraniano considera tale gesto come un adulterio commesso con una donna non sposata e Ronaldo, qualora dovesse tornare in Iran, rischierebbe una pena di ben cento frustate.

Georgina e la sensibilità dei tifosi sauditi

Recentemente è stata la compagna del portoghese, Georgina Rodriguez, a finire sotto i riflettori. In occasione della gara tra l’Al Nassr e l’Al Duhail, decisa da una doppietta di Cristiano Ronaldo, Georgina si è presentata allo stadio con un jeans molto attillato e con dei tacchi altissimi. La donna è stata costretta a raggiungere la tribuna autorità per evitare di urtare la sensibilità dei tifosi arabi.

Conclusioni

Nonostante in Europa gli Stati siano molto più propensi all’integrazione e alla tolleranza religiosa, i problemi di discriminazione confessionale permangono. In Paesi islamici, ove l’intolleranza e la repressione di culti all’infuori dell’Islam sono alla base, non ci si può di certo aspettare un diverso trattamento religioso rispetto al vecchio continente.

Il calcio è lo specchio della società, di conseguenza non può fare passi in avanti senza un contestuale progresso sociologico.

 

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Fonte foto: X Manchester City

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