La cessione di Bellanova esemplifica al meglio la mediocrità che avvolge la sponda granata della Mole. Il Torino rischia di vivere un altro ”anno zero”.
È oramai una verità conclamata: la sponda granata della Mole non sogna più. Non è più capace di farlo, non gli è concesso farlo. Il torpore della gestione Cairo ha condannato il Torino e i suoi tifosi ad un’esistenza piatta, priva di veri sussulti, priva di vere emozioni. Alla continua ricerca di certezze, di punti di riferimento, di obiettivi e ambizioni che, puntualmente, si trasformano in inconsistenza ed illusioni.
Torino, sei schiavo della mediocrità
Anche quest’estate la musica non è cambiata: è sempre la solita, stridente, melodia ad accompagnare il calciomercato del Toro. Ancora incompleto, ancora scarno, ancora deludente e inconcludente. Una lenta agonia ulteriormente inasprita, come se non bastasse, dagli addii di Buongiorno, granata purosangue, e di Bellanova, punto cardine della rosa. Quest’ultima, la cessione che ha fatto definitivamente traboccare un vaso già stracolmo di rabbia, perché è arrivata a campionato iniziato e, soprattutto, perché è stata accettata con una facilità disarmante. Tanto da esser stata prontamente rimpiazzata da un nome low cost, a prezzo di saldo, che non smuove gli animi e non entusiasma. Pedersen arriva in prestito oneroso a 1 milione, con diritto di riscatto fissato a 3,5 milioni: nulla in confronto al gruzzolo accumulato dalle recenti uscite, che poteva essere sfruttato in maniera decisamente diversa, più grintosa e meno sbrigativa.
Una cosa appare inconfutabile: il Torino ha abbracciato la mediocrità e non riesce più a levarsela di dosso. È una cultura oramai radicata nella visione del club: poca spesa, tempi di attesa estenuanti, beffe e nulla di fatto. Mosse di ripiego, azzardi. Qualche trovata, ma tanti flop, troppe promesse e nessun cenno di crescita, dentro e fuori dal campo. Una girandola di incognite che va avanti da vent’anni, da quando Cairo ha “ingabbiato” il Toro nell’apatia di sedici allenatori, otto direttori sportivi, un solo derby vinto, zero trofei e due piazzamenti europei “regalati”. Ma è soprattutto quella sensazione di non voler mai progredire, di non voler mai rischiare, di non voler mai distaccarsi dalla zona di comfort ad infastidire e a gonfiare di sdegno una piazza che non sa più cosa significhi sognare.