Zeman, una vita fuori dagli schemi

‘’Non importa quanti gol prendi se ne fai uno in più dell’avversario’’.

‘’Il risultato è casuale, la prestazione no’’.

Zeman è così. Prendere o lasciare, amare alla follia o odiare ciecamente. Ha un credo ben preciso, con cui si è sempre posto l’obiettivo di arrivare. Contro tutto e tutti, oltre tutto e tutti. Anche a costo di risultare presuntuoso, dall’alto del suo freddo cinismo da uomo dell’est. Lui, un boemo prestato all’Italia, è però qui da noi che ha costruito il suo personaggio: controverso anticonformista, iconico mattatore del calcio offensivo, di cui è stato uno dei primi grandi interpreti. Fino all’eccesso. Fino a quando padre tempo ha deciso che per le sue idee non c’era più spazio, costringendolo a ridimensionare le proprie ambizioni e la propria visione. Costringendolo, in un certo senso, a ‘’integrarsi’’, a omologarsi, status che non gli appartiene. Nemmeno adesso, arrivato alla veneranda età di 76 anni che non gli impedisce comunque di continuare ad allenare, per provare a riscrivere il finale di una carriera che lo ha visto sempre fuori dagli schemi. Il ‘’diverso’’, l’estraneo, di poche parole ma incisive. Imperfetto, folle. Per questo, un passo avanti a tutti. Un genio. Nel bene e nel male, nelle vittorie e negli esoneri.

Tanti, così come i fallimenti e le esperienze da accartocciare. Il suo carattere e i suoi metodi rigidi lo hanno portato spesso a mettersi contro giocatori e opinione pubblica. Ma Zeman, in fondo, voleva solo essere ricordato. Vale di più un trofeo o un’emozione incorniciata nella memoria? Vale di più il risultato o la volontà di andare oltre a questo? Zdenek si è posto questo traguardo: andare oltre, per l’appunto. Accarezzare il cambiamento, per farne il suo caposaldo più ricamato. Ecco, cambiamento. Zeman ne ha cavalcato l’onda, in un’epoca che lasciava spazio al nuovo. Per dire: nell’anno in cui il muro di Berlino veniva abbattuto, anno 1989, lui iniziava la sua seconda avventura a Foggia.

Quella che l’ha consacrato definitivamente, dopo un primo round di esperienze tra i dilettanti, in Sicilia, terra che lo ha accolto in seguito alla cosiddetta ‘’Primavera di Praga’’: Cinisi, Bacigalupo (su segnalazione di Marcello dell’Utri), Carini, Misilmeri ed Esakalsa, con sprazzi qua e là di gran bel calcio. Poi il triennio a Licata, l’anno a Messina in cui lancia Totò Schillaci, e i fugaci regni a Parma, esonerato, e sulla panchina proprio dei satanelli, che però lo richiamarono tre anni dopo.

Anno 1989, dicevo. Il presidente Pasquale Casillo nomina Zeman: nasce il Foggia dei miracoli. È l’inizio di una delle favole più belle del nostro calcio, dove una piccola realtà del sud arriva a competere con i più grandi. Senza paura, come il suo condottiero. Direttore d’orchestra di un capolavoro corale senza precedenti per quello che riusciva a proporre. Nella cartina geografica di un calcio in piena evoluzione tecnico-tattica, anche nel Bel Paese del catenaccio e contropiede, si inserisce di prepotenza la squadra del boemo: pressing asfissiante, difesa a ridosso della metà campo, inserimenti, triangolazioni, ricerca della verticale, uomini e palla in continuo movimento. Un 4-3-3 iper-offensivo, spettacolare nel suo squilibrio, robe da Zemanlandia pura (miglior attacco e peggior difesa, per intenderci). Il tutto supportato da allenamenti duri e un metodo ben riconoscibile, attraverso una rigida preparazione atletica di cui ricordiamo tutt’oggi gli storici gradoni e i dieci chilometri di corsa, lo sviluppo del gioco 11 vs 0 e le lezioni di tattica. È così che ha costruito il suo Foggia dei miracoli, partendo dalla Serie B fino alla massima serie con annesse tre salvezze consecutive, sfiorando anche l’Europa insieme al suo trio delle meraviglie Baiano-Signori-Rambaudi. Un inno avanguardista, diventato ben presto monito per il calcio italiano ‘’conservatore’’.

Poi un giro nella Capitale, tra Lazio e Roma, dove il suo calcio spumeggiante porta i soliti risultati roboanti e lancia giovani, altra qualità di Zeman: i biancocelesti Di Vaio e Nedved, per esempio. Con il boemo, inoltre, Nesta si consacra, Delvecchio raggiunge il top della forma e Totti diventa capitano nonché un punto fermo e intoccabile.

Negli anni successivi, inizia la sua parabola discendente. Dimessosi dal Fenerbahce, esonerato da Napoli e Salernitana e retrocesso con l’Avellino. In seguito, nuovi botti a Lecce, dove lancia Bojinov e Vucinic salvando i salentini con uno dei migliori attacchi e la difesa più perforata, un must. Esperienza fugace: scende di nuovo in B, a Brescia, e non brilla, poi ancora Lecce, sempre in cadetteria, e un altro esonero.

Dovrà aspettare il 2011 per rilanciarsi: siede sulla panchina del Pescara, che riporta in Serie A 19 anni dopo l’ultima volta buttando nella mischia Ciro Immobile (capocannoniere di quel campionato) e Verratti, oltre a valorizzare Insigne e Moussa Konè. 90 gol fatti, 55 subiti: riapre la giostra del gol. Per poco, però.

Zeman abbandona presto la sua nuova creatura. Ci vuole riprovare alla Roma, che lo richiama dopo quasi vent’anni. Delude, viene esonerato, in quella che, a tutti gli effetti, è stata l’ultima occasione ad alti livelli per un allenatore che ha unito e il più delle volte diviso. Un allenatore che però ha innovato, lasciando un segno ben visibile. Un uomo e un allenatore unico. Da una vita fuori dagli schemi.

 

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